sabato 26 maggio 2007

Piero Manzoni e il suo concetto di arte indipendente



Piero Manzoni nasce il 13 luglio del 1933 a Soncino (Cremona), studia per breve tempo all'Accademia di Brera a Milano e dopo un primo periodo di pittura tradizionale viene a contatto con i rappresentanti dello Spazialismo, del Gruppo Cobra e dell'Arte Nucleare, rivolgendosi così alle ricerche sperimentali. Alla fine del 1955 inizia a lavorare su motivi informali avviandosi verso la sperimentazione su diversi materiali tra cui il gesso, la colla, oggetti d'uso, catrame, ecc., definendo già da allora la prevalenza della sua ricerca nei due differenti ambiti della pittura e della banalità del reale. E' attentissimo ai fenomeni culturali più significativi del tempo di cui accetta senza riserve le influenze assimilandole totalmente e trasformandole in retroterra della sua formazione e del suo lavoro. Guarda così all'opera degli informali, in particolare Burri e Fautrier e soprattutto a quella di Fontana, che già dalla fine degli anni quaranta conduceva la sua ricerca sullo spazio e le sue proprietà fisiche e metafisiche. All'inizio degli anni Cinquanta, l'opera di Burri e Fontana rappresenta per i giovani artisti in Italia i risultati di due linee artistiche diverse ma parallele che si fronteggiano. Sia Burri che Fontana, come scrive Achille Bonito Oliva, "hanno assunto, quale loro punto di partenza, il concetto di arte come atto di espressione totale in cui l'artista si realizza, fuggendo, per mezzo della sua creazione, la natura incompleta della vita, per andare verso la completezza del prodotto artistico". Entrambi inoltre "considerano l'opera d'arte come un'estensione della propria esistenza, la quale ha trovato la sua affermazione tramite il movimento verticale della creazione. In questo modo, un cordone ombelicale lega sia l'opera all'artista che lo spazio fluente dell'immaginario allo spazio appiattito ed orizzontale del mondo quotidiano. Ne deriva perciò, in una visione mistica ed assoluta dell'arte, la speranza di allontanarsi dalla banalità tragica ed anonima della vita per via di un atto, la creazione artistica, che glorifica il valore individuale della soggettività". Sia Burri che Fontana quindi saldano insieme la materia con la forma in un unico concetto, come sola possibilità emergente dal contatto traumatico con l'esistenza e il quadro o la scultura "è la fine di un viaggio mistico nel territorio buio dell'immaginazione, un punto d'arrivo, di riferimento nella vita che si presenterebbe altrimenti come sparsa e frammentaria. L'arte, per gli artisti degli anni cinquanta, non è quindi un attività specializzata, ma un'avventura che coinvolge tutti i livelli di esistenza, che rende capace l'uomo come l'artista di vivere attraverso un'esperienza che non ha niente a che fare con l'arte intesa quale professione". Verso la fine degli anni Cinquanta alcuni giovani artisti tra cui lo stesso Manzoni si propongono in antitesi a questa teoria, intendendo l'arte come un'attività specifica e autonoma dalle necessità espressive dell'artista derivate dalla sua esistenza. Per questi artisti la creazione si fonda un progetto mentale e tecniche specifiche che portano a considerare l'opera come una realtà a parte rispetto allo scopo soggettivo dell'artista. Essi si oppongono quindi al concetto di arte come avventura liberatoria e vanno verso l'acquisizione di una coscienza più riflessiva del proprio ruolo, distinto da quello dell'opera che comincia a vedersi come conseguenza dell'operare, del fare arte. Nel 1956 Manzoni conosce l'opera di Yves Klein esposta a Milano e nel "manifesto contro lo stile" ammette come "ultime forme possibili di stilizzazione le proposizioni monocrome di Yves Klein". Assimilando questa esperienza come rivelazione, crea gli "achromes", prima con gesso inciso, poi con tele ricoperte di caolino, polistiroli, feltri, pani, pietre, che continuerà a produrre sino al 1963. "Gli Achromes di Manzoni" scrive Bonito Oliva, "sono superfici prevalentemente bianche formate con diversi materiali che organizano una porzione di spazio rinviante soltanto a se stesso. Una concezione metonimica presiede l'opera di Manzoni, sostituendo la visione metaforica, che è alla base dell'arte degli anni '50: la materia ed il taglio erano pur sempre metafore delle forze originarie della natura e tracce dello spazio reale. Gli Achromes sono soltanto ciò che si vede, una fenomenologia particolare dello spazio, ridotto ad evento visivo e concreto. Il quadro è il portato di un procedimento in cui tutti gli elementi sono sotto il controllo emotivo dell'artista che ormai tende a dare all'opera una sua identità separata ed autonoma."Contemporaneamente l'oggetto d'arte acquista di conseguenza una sua esistenza indipendente; l'artista gli conferisce creandolo una fisicità autonoma rispetto a sé, ne fa un prodotto che non ha bisogno di altro che di se stesso per essere opera d'arte". "Manzoni spezza il cordone ombelicale con l'opera e adotta un cinismo attivo che permette il controllo dell'attività e l'analisi del linguaggio. Non si crede più al valore assoluto dell'arte, ma ad un valore relativo che nasce solo dalla coscienza "metalinguistica" dell'arte, in quanto mezzo dell'espressione dell'arte a zero, alle proprie regole fondamentali, riduzione che permette una ricerca come affermazione di tautologia linguistica. L'arte viene separata dal proprio indeterminismo ed immessa all'interno di aree conoscitive più controllate e verificabili. Questo nuovo atteggiamento analitico determina un salto qualitativo ma anche politico, nel senso che l'artista non può più confondere arte e vita, risolvere le antinomie della storia mediante l'arte, può soltanto operare un approfondimento e un salto in avanti nella ricerca artistica. Alla realtà parziale del quotidiano Manzoni risponde con la totalità relativa dell'opera, che ha ormai perduto tutte le proprie allusioni ai traumi dell'esistenza ed ha invece acquistato un suo splendente superficialismo. Il Superficialismo è coscienza del carattere bidimensionale del linguaggio, della sua qualità di essere oggetto e soggetto della creazione."(Bonito Oliva)La volontà di raggiungere gli archetipi delle categorie che entrano in gioco nell'operazione artistica è radicale e affermata con estrema, ironica chiarezza e decisione da Manzoni: "(...) non ci si stacca dalla terra correndo o saltando; occorrono le ali; le modificazioni non bastano: la trasformazione deve essere integrale. Per questo io non riesco a capire i pittori che pur dicendosi interessati ai problemi moderni, si pongono a tutt'oggi di fronte al quadro come se questo fosse una superficie da riempire, di colori o di forme, secondo un gusto più o meno apprezzabile, più o meno orecchiato. Tracciano un segno, indietreggiano guardando il loro operato inclinando il capo e socchiudendo un occhio, poi balzano di nuovo in avanti, aggiungono un altro segno, un altro colore della tavolozza, e continuano in questa ginnastica finché non hanno riempito il quadro, coperta la tela: il quadro è finito: una superficie d'illimitate possibilità è ora ridotta ad una specie di recipiente in cui sono forzati e compromessi colori innaturali, significati artificiali. Perché invece non vuotare questo recipiente? Perché non liberare questa superficie? Perché non cercare di scoprire il significato di uno spazio totale, di una luce pura ed assoluta? Alludere, esprimere, rappresentare, sono oggi problemi inesistenti (e di questo ho già scritto alcuni anni fa), sia che si tratti di rappresentazione di un oggetto, di un fatto, di un'idea, di un fenomeno dinamico o no: un quadro vale solo in quanto è, essere totale; non bisogna dir nulla: essere soltanto. (...) Non si tratta di formare, non si tratta di articolar messaggi (né si può ricorrere a interventi estranei, quali macchinosità parascientifiche, intimismi da psicanalisi, composizioni da grafica, fantasie etnografiche ecc... ogni disciplina ha in sé i suoi elementi di soluzione); non sono forse espressione, fantasismo, astrazione, vuote finzioni? Non c'è nulla da dire: c'è solo da essere, c'è solo da vivere."Ora l'opera d'arte non esprime l'urgenza di spingersi verso la vita, ma quella piuttosto di analizzare la distanza che vi intercorre e la peculiarità del linguaggio artistico rispetto a quello della comunicazione quotidiana. L'artista si considera come colui che esercita una professione specializzata con un oggetto ben individuato che è il linguaggio: il linguaggio preesiste all'opera e il suo luogo abituale è la storia dell'arte. Ma l'artista, inserito nella storia e sottoposto ai suoi contraccolpi, sente la precarietà dell'esistenza fino alla coscienza lucida dell'impossibilità di riscattarla attraverso l'immaginario. L'immaginario risponde ad alcune regole esatte che sono poi quelle del linguaggio, esso è sempre fondato dentro la realtà, ma perché si formuli nell'opera è necessario un procedimento rigorosamente analitico che scinda il disordine della vita e l'ordine dell'arte. Il procedimento analitico in Manzoni, non poggia su convenzioni precedenti, cerca di fondare un proprio metodo di verifica, contestuale all'opera, in maniera che niente esista prima e dopo di essa. Viene così a cadere quel margine di atteggiamento metafisico che pur sempre rimaneva nell'arte informale per cui l'opera è la continuazione della vita e la vita il prima e il poi dell'opera. La sua ricerca approda alle prime "linee" del '59 tracciate su fogli che poi arrotola e chiude in cilindri sui quali appare come titolo la registrazione della lunghezza e della data di esecuzione, mentre per soddisfare l'esigenza di rappresentare l'illimitato, l'infinito, eccolo nel 1960 realizzare una linea in più esemplari che chiama, facendo riferimento in ognuno di essi al loro insieme, "linea di lunghezza infinita". E ancora, proseguendo nell'intento di far coincidere il tempo dell'arte con il tempo dell'artista e con ciò che questi può fare in tale tempo, realizza i "corpi d'aria", contenitori di fiato con diametro massimo di 80 cm, ancorati su treppiede metallico, offerti in apposito contenitore; possono essere, a richiesta, gonfiati da Manzoni stesso, e in questo caso l'opera si trasforma in "Fiato d'Artista", che viene sigillato e vincolato ad una base di legno. Nell'estate del 1960 inizia i viaggi in Danimarca: ad Herning realizza la sua linea più lunga, di 7.200 metri, chiusa in un contenitore che viene consegnato alla città e interrato allo scopo di essere scoperto in seguito. Tornato a Milano apre l'esposizione "Consumazione dell'arte" in cui vengono distribuite al pubblico uova sode, ognuna delle quali recanti un'impronta dell'artista che attribuisce valore ad una materia di per sé insignificante. Anche Manzoni consuma le uova, dunque si ciba della sua stessa opera, di se stesso, e proseguendo nella puntualizzazione dei legami intercorrenti tra sé e i propri limiti corporali, giunge nel '61 ad inscatolare ed esporre 90 scatolette di "Merda d'artista", con chiaro e sarcastico riferimento anche alla mercificazione dell'arte come di qualsiasi altro prodotto della società contemporanea: "contenuto netto 30 grammi, conservata al naturale, made in Italy". Nello stesso anno lavora ad una serie di "achromes" fatti con materiali diversi: inizia ad usare quadrati di ovatta, batuffoli di cotone, peluche, fibre artificiali, carta igienica e realizza pacchi di carta di giornale sigillati. Del 1962 sono nuovi "achromes" con polistirolo espanso, con pelle o con sassi ricoperti di caolino. Ogni operazione di Manzoni, pur partendo come intuizione di genio, è lucidamente condotta sul filo della più analitica razionalità riscattata in più da qualsiasi ppericolo di saccenteria cattedratica da una quasi beffarda ironia. Scrive ancora nel 1962: "Nel 1959 avevo pensato di esporre delle persone vive (altre morte volevo invece chiuderle e conservarle in blocchi di plastica trasparente); nel '61 ho cominciato a firmare, per esporle, delle persone. A queste opere dò una carta di autenticità. Sempre nel gennaio '61 ho costruito la prima "base magica": qualunque persona, qualsiasi oggetto vi fosse sopra era, finche vi restava, un'opera d'arte. Una seconda l'ho realizzata a Kopenaghen. Sulla terza, di ferro di grandi dimensioni, posta in un parco di Herning poggia la terra: è la base del mondo. Nel mese di maggio del '61 ho prodotto e inscatolato 90 scatole di "merda d'artista" (gr. 30 ciascuna) conservata al naturale (made in Italy). In un progetto precedente intendevo produrre fiale di "sangue d'artista". Da '58 al '60 ho preparato una serie di "tavole di accertamento" di cui 8 sono state pubblicate in litografia, raccolte in cartelle (carte geografiche, alfabeti, impronte digitali...). Per la musica nel '61 ho composto due "Afonie": l'Afonia Herning (orchestra e pubblico), l'Afonia Milano (cuore e fiato). Attualmente ho in fase di studio un labirinto controllato lettronicamente, che potrà servire per tests psicologici e lavaggi del cervello" (Alcune realizzazioni, alcuni esperimenti, alcuni progetti, Milano 1962). Sempre parallela all'attività di artista vi è quella di instancabile organizzatore e promotore, all'interno della quale si colloca innanzitutto la pubblicazione della rivista Azimuth che presenta testi di poeti, critici e artisti e fa conoscere nomi internazionali quali Rauschenberg, Johns o il gruppo tedesco Zero. Pressoché tutti i fatti artistici che influenzeranno la cultura artistica degli anni a venire sono puntualmente riportati, mentre già Dorfles presenta nella rivista le sue ricerche sui fenomeni più attuali quali la comunicazione e il consumo di massa. Alla rivista segue I apertura della galleria sotterranea Azimut che si fa promotrice delle tematiche afferenti il dinamismo temporale. Muore improvvisamente di infarto a soli trent'anni, il 6 febbraio 1963, lasciando una eredità culturale verso la quale più che evidente è il debito che deve tributare tutta l'arte dei decenni successivi e in particolare il concettualismo e in particolare il comportamentismo e la body Art.


Per chi volesse approfondire quest'artista riportiamo di seguito i luoghi e le date dove poterlo vedere:

fino al 4.11.2007

Vertigo - The century of off-media art from Futurism to the web MAMbo - Galleria d´Arte Moderna di Bologna, Bologna

fino al 5.9.2007

Into Me, Out of Me MACRO - Museo d'Arte Contemporanea Roma, Roma

fino al 10.6.2007

Das Schwarze Quadrat. Hommage an Malewitsch-Gründungsbau Hamburger Kunsthalle, Amburgo

sabato 19 maggio 2007

Christo, Jeanne-Claude e l'arte di impacchettare



Christo Javacheff nasce a Gabrovo in Bulgaria il 13 giugno del 1935 da una famiglia di origini imprenditoriali, dal 1953 fino al 1956 completa gli studi all’Accademia di Belle Arti di Sofia. Nel 1956 soggiorna a Praga per sei mesi e l'anno successivo Christo completa un semestre di studio all’Accademia di Belle Arti di Vienna. Nel 1958 fa il "salto di qualità" e si trasferisce a Parigi dove incontrerà Jeanne-Claude Denat de Guillebon che diverrà sua moglie nello stesso anno. Proprio di questo periodo sono le sue prime opere come i "Packages" (pacchetti) ed i "Wrapped Objects" (oggetti impacchettati). Nel 1960 nasce ,l'11 Maggio, suo figlio Cyril. Il 1961 segna l'inizio da un lato della collaborazione artistica con sua moglie Jeanne-Claude e dall'altro di due realizzazioni che diventeranno successivamente suoi "cavalli di battaglia" il "Projet d’un édifice public empaqueté" cioè il primo progetto di impacchettamento di un edificio pubblico e lo "Stacked Oil Barrels" ovvero l'accumulazione di migliaia di barili di petrolio al porto di Colonia. Nel 1962, sulla falsa riga dell'anno precedente realizza "Wall of Oil Barrels" in Rue Visconti a Parigi, installazione nella quale Christo blocca una via di Parigi con un "muro" composto da 240 barili di petrolio, l'opera viene installata di notte per via della sua illegalità e la sua durata fu molto limitata in quanto la mattina successiva la strada venne riaperta. Nel 1964 Christo e Jeanne-Claude si trasferiscono a New York. Nel 1966 realizzano "Air Package" ovvero pacco d’aria in sospensione e "Wrapped Tree" cioè albero impacchettato allo Stedelijk Van Abbemuseum di Eindhoven in Olanda; dello stesso anno è anche "42,390 Cubic Feet Package" esposto al Walker Art Center ed alla Scuola di Belle Arti di Minneapolis che prevedeva l'impacchettamento di circa 1200 metri cubi d’aria. Nel 1968 Christo è a Spoleto in Italia e realizza "Wrapped Fountain" (fontana impacchettata) e "Wrapped Medieval Tower" ovvero l'impacchettamento di una fontana storica e di un’antica torre medioevale in occasione del Festival dei Due Mondi; nel medesimo anno realizza "Wrapped Kunsthalle Berne" l'impacchettamento di un edificio pubblico, "5,600 Cubicmeter Package" un impacchettamento d'aria alto 85 metri realizzato su un basamento circolare del diametro di 274 metri al "Documenta 4" di Kassel ed infine il mitico "1,240 Oil Barrels Mastaba" cioè la costruzione di una mastaba composta da oltre 1200 fusti di petrolio. Nel 1969 realizza un opera, "Wrapped Coast" a Sydney in Australia, costatagli dieci anni di progettazione che prevedeva la ricopertura della scogliera australiana con 100 chilometri quadrati di tessuto anti-erosione e oltre 56,3 chilometri di funi. Molte sono le opere realizzate negli anni successivi come "Wrapped Roman Wall" ovvero il drappeggio di un tratto delle antiche mura aureliane e di una porta romana o "The Pont Neuf Wrapped" il drappeggio del più antico ed unico doppio ponte sulla Senna a Parigi realizzato con 40.876 metri quadrati di poliammide intrecciato color champagne e 13 km di funi, ma probabilmente la più importante rimane, anche per la tempistica occorsa a realizzarla, circa sette anni dal 1984 al 1991, "The Umbrellas" opera che prevedeva l'installazione di 1340 ombrelloni blu a Ibaraki sulle coste del Giappone e 1760 ombrelloni gialli su quelle della California negli Stati Uniti, ogni ombrellone era alto sei metri e aveva un diametro di 8,7 metri. Nel 1992 Christo azzarda un progetto ancor'oggi in fase di realizzazione "Over the River" ovvero la proposta di copertura, con una successione di pannelli in tessuto sostenuti da cavi d’acciaio, di un tratto di 11 chilometri del fiume Arkansas in Colorado. L'ultima opera in ordine di tempo è datata 2005 ed è "The Gates" installazione, all'interno de Central Park di New York, di un percorso pedonale segnato da 7503 “porte” poste a distanza costante da cui scendono teli colorati sospesi a due metri da terra. In definitiva Christo e Jeanne-Claude sono due artisti unici che attraverso la loro opera "svelano nascondendo", aprendo l'immaginazione dell'uomo e nascondendo o evidenziando il contenuto originale per un breve lasso di tempo. Nel periodo di durata del progetto, siti, oggetti ed edifici diventano totalmente altro da sé, assumono l'aspetto della scultura e diventano, anche in caso di manufatti noti o di isolate porzioni di natura, prodotto estetico autonomo, altra cosa rispetto a quello che sta sotto o dietro. Evidenziare nascondendo, proporre una percezione della realtà prima mai avuta, è questa in sintesi la loro arte.

sabato 12 maggio 2007

Shozo Shimamoto e il gruppo "Gutai"



Shozo Shimamoto, artista giapponese nato nel 1928, è stato tra i fondatori del gruppo Gutai, una delle avanguardie internazionali nate dopo la seconda guerra mondiale, per compiere una rivoluzione culturale che azzerasse il pensiero classico e portasse alla nascita di un uomo nuovo. Il Gutai nasce nel 1954 sotto la guida di Jiro Yoshihara e si dedica ad un arte legata alla “pittura-azione”, alla performance, all’happening, cioè a quell’arte che sapeva uscire dai canoni della tradizione e del museo per rivolgersi direttamente alla gente con un interventi spesso duri e provocatori. Non a caso il manifesto scritto da Shimamoto per Gutai, datato 1957, si intitolava “Per una messa al bando del pennello”:<< ....quando io iniziai a usare le sostanze coloranti non sapevo molto sui pennelli adoperati durante il Rinascimento; ma sono sempre stato certo che ovunque al mondo il pennello ad altro non sia servito e non serva che a esprimere il colore svuotandolo di forza nella sostanza colorante, cioè ad asservire quest'ultima allo scopo di creare colori di cui la stessa sostanza non sia altro che strumento. In ciò il Giappone ha fornito alcuni dei migliori esempi. Eppure, come una linea priva di spessore non esiste,un colore senza materia non si concretizza. In ogni occasione e luogo la sostanza colorante oppone resistenza al pennello. Chiunque sia l'autore del dipinto, Rembrandt, Pissarro, Van Gogh o altri, si riuscirà sempre a riconoscere chiaramente con cosa esso sia stato fatto. Per quanto l'artista si prodighi a profondere il proprio genio spirituale con il pennello tentando di rimuovere la materialità della colorazione, in ogni tela la sostanza che le da colore rimarrà riconoscibile. Nulla può il pennello contro simile ostilità. Per contro, screpolature ed erosioni, o magari una mutazione di colore sopravvenuta inaspettatamente, ci fanno scoprire la bellezza intrinseca nelle sostanze coloranti ... noi invece oggi non vogliamo più adoperare le qualità dei coloranti (si tratti di oli o smalti) distorcendole. L'ho già detto ; un colore senza materia non esiste. Nel fare un quadro, quindi, rappresentazione di un'immagine naturale o di un'idea poco importa, non resta che conservare quella bellezza della materia che sopravvive talora anche alla prova di forza del pennello. Io credo che la prima cosa da fare sia liberare il colore dal pennello. Se in procinto di creare non si getta via il pennello non c'è speranza di emancipare le tinte. Senza pennello le sostanze coloranti prenderanno vita per la prima volta. Al posto del pennello si potrebbe usare con profitto qualsivoglia strumento. Per iniziare, le nude mani o la spatola da pittura. E poi ci sono oggetti adoperati dai membri del gruppo Gutai: annaffiatoi, ombrelli, vibratori, pallottolieri, pattini, giocattoli. E poi ancora i piedi, le armi da fuoco, o altro. E in tutto ciò potrebbe anche ricomparire il pennello, perché non vi è dubbio che in simili elaborazioni innovatrici qualcosa del passato torna in essere. Ma che sia un qualcosa non più ideato per umiliare e uccidere le qualità della materie coloranti, bensì per renderle ancor più vive”. Quindi Shimamoto si può considerare un vero “pittore concreto” cioè colui che usa il colore nelle sue fondamentali qualità materiche. Inoltre a questa poetica aggiunge la performance. I suoi “quadri” nascono da azioni durante le quali scaglia bottiglie di colore sospeso nel vuoto, roteando attorno all’enorme tela, saltando come un folletto dentro il magma della pittura. E’ in questo l’unico continuatore di un concetto di pittura nato da Jackson Pollock, ma in più l’artista giapponese possiede un’idea di pittura che nasce dal rapporto tra l’artista e il pubblico durante delle azioni pubbliche: l’arte per lui è qualcosa di unico e irripetibile, ogni suo lavoro è diverso perché diverse sono le condizioni in cui è stato realizzato. Shozo Shimamoto tra il 1949 e il 1950 realizza i primi “Ana (Buchi)” e già nel 1955 organizza una mostra sperimentale in cui gli spettatori sono invitati a partecipare fisicamente. Ha esposto per la prima volta in Italia a Torino nel 1961. La sua opera è conosciuta nel mondo con mostre personali o di gruppo. Nel 1993 è stato invitato alla Biennale di Venezia. In accordo con la religione buddista, nel 1995 viene celebrato il suo “funerale in vita”, mentre prosegue instancabile a realizzare performance dagli Stati Uniti all’Europa, unico rappresentante di una stagione artistica legata alla performance e all’incontro interattivo con il pubblico.

sabato 5 maggio 2007

I maestri dell'800: Claude Monet



Claude Oscar Monet nasce il 14 novembre 1840 a Parigi, figlio primogenito di un droghiere che, cinque anni dopo, si trasferisce a Le Havre: qui egli compie gli studi regolari e, manifestando una precoce inclinazione all'arte, dal 1856 al 1858 studia disegno da un certo F. J. Ochard. La sua prima passione è la caricatura che pratica con successo, poi, sotto la guida del paesaggista Eugène Boudin, impara ad amare la pittura all'aria aperta. Nel negozio di un corniciaio di Le Havre dove erano esposti alcuni suoi quadri, Boudin aveva notato delle caricature di celebri personaggi locali opera di un giovane di nome Monet. "Dovreste provare a dipingere", gli disse quando si incontrarono e fu così che partì con Boudin per dipingere en plein air. Ben presto si impadronì delle tecniche di rappresentazione del paesaggio, imparò ad usare i colori chiari e nacque in lui l'amore per il mare e l'acqua che lo accompagnerà per tutta la vita. Nel 1859 si reca a Parigi trascorrendo molte giornate al Salon e, contro il parere di tutti, studiando per conto suo senza frequentare i corsi all'Accademia: la conoscenza delle opere di Delacroix e le discussioni alla brasserie des Martyrs arricchiscono il suo patrimonio culturale e la sua esperienza artistica più di ogni insegnamento scolastico. Nel 1860 è richiamato sotto le armi e parte per l'Algeria con i cacciatori d'Africa ma, ammalato di anemia torna a Le Havre in convalescenza all'inizio del 1862 e, in cambio del pagamento della tassa per il riscatto dal servizio militare, la sua famiglia ottiene che Claude entri nello studio di un pittore "serio". L'intervallo di Le Havre è particolarmente felice per il giovane pittore che di frequente si reca in campagna o sulla riva del mare a dipingere il paesaggio della Normandia in compagnia di Boudin o di Jongkind che casualmente conosce. L'incontro con il pittore olandese è un'altra esperienza fondamentale per Monet: lo portò con se nelle sue spedizioni e il suo fine insegnamento completò quello di Boudin. A Parigi, in autunno, entra nell'atelier di Gleyre, dove conosce Bazille, Renoir e Sisley, coi quali si lega di una amicizia destinata a durare tutta la vita, conosce la pittura di Manet e l'anno successivo la pittura di Courbet. Gleyre era un uomo schietto e cordiale che cerca pazientemente di portare Monet a disegnare secondo lo stile accademico, ma i suoi metodi di insegnamento non sono abbastanza stimolanti per il giovane pittore che, grazie al contatto con queste altre grandi personalità, impara a "vedere" in maniera diversa. Durante questi anni di dure difficoltà e di miseria, conseguenti alle ripetute liti con la famiglia che non approva la sua carriera di indipendente e di ribelle rifiutandogli ogni sostentamento economico, Monet lavora accanitamente all'aria aperta, nella foresta di Fontainebleau, lungo la Senna, in Normandia. E' interamente assorbito dalla progettazione e l'esecuzione di due grandi tele. Una è Le Déjeuner sur l'herbe (1865), un tributo a Manet autore di una tela dallo stesso titolo quanto mai rivoluzionaria, che egli aveva ammirato al Salon des Refusés del 1863; l'altra, dipinta due anni dopo, è la non meno ambiziosa Donne in giardino, in cui il pittore cerca di rendere l'effetto prodotto da una luce che, filtrando a chiazze tra il fogliame, si posa su di un gruppo di persone. Nel 1866, in seguito al discreto successo ottenuto al Salon dal suo ritratto di Camille Donceux, i suoi familiari nuovamente lo aiutano, ma per poco: quando sanno che egli vive con Camille gli impongono di abbandonare l'amica che nel frattempo, a Parigi, ha dato alla luce Jean. Queste dolorose vicende gli impediscono di dipingere con regolarità: è sempre in giro come un vagabondo, sbattuto da Parigi alla Normandia e durante una visita a Le Havre nel 1867, spinto dall'intento di riappacificarsi con la famiglia, dipinge la famosa Terrazza sul mare a Sainte-Adresse, in cui compaiono la zia e il padre nel giardino affacciato sul mare.Nella primavera dell'anno successivo un suo quadro viene accettato al Salon e così le sue difficoltà finanziarie temporanemente diminuiscono. Con la sua famiglia si sistema in una locanda del piccolo villaggio di Gloton, un posto sperduto, un paradiso di prati verdi e ranuncoli, raggiungibile solo attraverso la Senna su di un vecchio traghetto tirato da una catena. Qui Monet, trascorre molte ore felici con Camille e Jean e dipinge Fiume, oggi conservato all'Art Istitute di Chicago, forse, il primo dipinto d'ispirazione impressionista per la presenza di tutti gli elementi caratteristici: acqua, riflessi, ombre colorate.



Nel 1869 va a vivere a Saint-Michel, vicino a Bougival. Nonostante le difficilissime condizioni economiche, chiaramente testimoniate dalla corrispondenza tra Monet e Bazille e tra Renoir e Bazille. Monet, spesso in compagnia del pittore di Limonges, dipinge in questo luogo alcuni tra i quadri più sereni della sua carriera come le tele della Grenouillère, un caffè galleggiante che si trova in un punto della Senna di fronte all'Ile de Croissy dove le acque del fiume scorrono più lente. Qui Monet ama dipingere il fiume ricreando la superficie dell'acqua nei suoi riflessi e nella sua trasparente lucentezza. Nel frattempo, l'artista non perde occasione per recarsi a Parigi, dove un gruppo di pittori indipendenti ha preso l'abitudine di riunirsi al Café Guerbois, nella Grand'Rue des Batignolles oggi Avenue de Clichy. Ogni venerdì sera si ritrovano insieme Renoir, Sisley, Pissarro, Degas, Cézanne, Bazille e Monet per discutere di pittura con Zola, con Manet, con l'incisore Desboutins, con il musicista Cabaner, Duranty o Whistler verso il quale Monet nutre una grande ammirazione. Negli anni della guerra franco-prussiana il Café Guerbois è, dunque, la culla dell'Impressionismo, dove nacquero le teorie del movimento grazie alle discussioni animate tra Manet, Degas, Cézanne e gli altri protagonisti, discussioni a cui Monet preferiva non partecipare attivamente rimanendo in disparte con la sua pipa. Nel 1870 sposa Camille, lo stesso anno in cui, in seguito alla guerra franco-prussiana, ripara a Londra. Daubugny, Bouvin e Sisley sono già in Inghilterra, Boudin e Diaz erano incerti se partire, ma Monet, dopo essersi recato a Le Havre per informarsi sugli ultimi avvenimenti, s'imbarca e viene raggiunto dopo poco dalla moglie Camille e dal figlio. Contro ogni aspettativa, gli affari a Londra presero una svolta favorevole. Alcuni giorni dopo il suo arrivo Monet incontra Daubigny in un caffè frequentato da esuli francesi. Quest'ultimo, quando sa della difficile situazione in cui si trova il giovane pittore che egli aveva sempre appoggiato tanto da dimettersi dalla giuria del Salon dopo il rifiuto di un suo dipinto, lo presenta subito al mercante Durand-Ruel, un altro profugo che aveva aperto una galleria al n° 168 di New Bond Street. Durand-Ruel aveva ereditato una delle prima gallerie d'arte di Parigi dal padre decidendo di occuparsi in particolare della generazione di artisti contemporanei, tra cui Corot, Daumier, Courbet, Baubigny, Diaz e i paesaggisti della scuola di Barbizon. L'incontro è, dunque, fortunato per entrambi: il mercante è felicissimo di incontrare un artista che ammira da tempo e, attraverso il quale entrerà in contatto con la cerchia dei futuri impressionisti, prima Pissarro, poi Sisley, Manet, Degas, Renoir, mentre per Monet è quasi superfluo sottolineare che in questo modo può avere la possibilità di vendere le sue tele. Grazie a questa nuova fonte di guadagno Monet inizia a vivere in maniera confortevole in un appartamento di Kensington, si innamora subito di Londra , dei ponti, dei parchi alberati, del Parlamento nascosto da un velo di foschia e nel corso delle sue varie visite londinesi produce più di un centinaio di tele. Insieme a Pissarro visita i musei soffermandosi in particolare sulle opere di Turner nella National Gallery, opere che sono per lui una sensazionale scoperta e fonte di grande suggestione, come le Cattedrali di Rouen sembrano testimoniare. La vita a Londra si sarebbe svolta piacevolmente se dalla Francia non fossero giunte notizie drammatiche, ma solo dopo la repressione della rivolta popolare Monet decide di tornare. Nel giugno del 1871 si trova nella cittadina olandese di Zaandam, poi visita Amsterdam, i musei e rimane impressionato dalla campagna e dai mulini a vento; in seguito, giunto a destinazione, si stabilisce a Argenteuil. Non è più la miseria, ma le continue difficoltà economiche non gli impediscono, questa volta, di dipingere con regolarità e con una applicazione quasi costante, specie per l'aiuto del mercante Durant-Ruel, il solo a credere nel valore delle ricerche di Monet e dei suoi amici. Da questo momento egli assume la posizione di caposcuola del movimento, ricoperta precedentemente da Manet, e con la sola eccezione di Degas che non ama la pittura en plein air, il gruppo di frequentatori del Café Guerbois prende ad radunarsi ad Argenteuil per dipingere nel giardino dell'amico e lavorare sulle rive della Senna. E' con costoro, oltre che con Degas e la Morisot, che organizza la prima mostra di gruppo, quel gruppo che il titolo di un suo quadro - Impression: soleil levant - fa battezzare ironicamente, dal critico Louis Leroy sul Charivari, "impressionisti". La mostra è inaugurata il 25 aprile al n° 35 del boulevard des Capucines, nei locali messi a disposizione del fotografo Nadar, un uomo straordinario che partecipa animatamente alle riunioni del gruppo. Furono esposte 165 tele dei 30 partecipanti, tra cui Il palco e una Ballerina di Renoir, La casa dell'impiccato di Cézanne e L'esame di ballo di Degas. Quasi nessuno, in questo 1874, crede nella serietà dei giovani pittori che fanno scandalo; per i più non si tratta che di assurde e ridicole buffonate, ciò nonostante qualche quadro si vende (Monet fu il più fortunato riuscendo a vendere Impression a un collezionista destinato ad avere un ruolo fondamentale nella sua vita, Ernest Hoschedé) e qualche critico ha il coraggio di alzare la sua voce per sostenerli. Così queste mostre si terranno ripetutamente (1874, 1876, 1877, 1879, 1880, 1881, 1882, 1886), Monet però non partecipa né alla quinta, né alla sesta, né all'ottava edizione, per polemica con le tendenze e gli inviti di taluni promotori. Hoschedé acquista molte tele oltre alla tela più famosa della prima mostra, tanto che Monet spera che questi prenda il posto di Durand-Ruel tra i suoi estimatori, ma sfortunatamente il finanziere è già sull'orlo del fallimento quando lo invita a trascorrere alcune settimane nel suo castello di Montgeron. Il tentativo di salvare il suo patrimonio porta spesso Hoschedé a Parigi e Monet si trova solo con la sua giovane moglie, Alice; forse durante una delle consuete lunghe conversazioni scocca la scintilla che avvierà una amicizia destinata a sfociare in un legame duraturo.In autunno Monet, tornato ad Argenteuil, ottiene il permesso di dipingere l'interno della stazione di Saint-Lazare. Evidentemente non ha dimenticato le conversazioni al caffè su quella pittura della vie moderne e la stazione lo attrae per la sua atmosfera fumosa, rischiarata dalla luce che si riversa all'interno dal grande tetto di vetro. All'inizio del 1878, Monet lascia Argenteuil e si trasferisce a Vétheuil. La scelta di una abitazione grande era divenuta una necessità da quando i Monet e la famiglia Hoschedé cominciano a vivere insieme a causa delle cattiva condizione economica dell'amico Ernst. Intanto, Camille è debole e malata, il suo stato di salute è ancora più precario dopo la nascita di un secondo figlio, Michel e, nel settembre del 1879, muore. Egli riprende la sua vita di cacciatore alla ricerca di impressioni: Poissy, Verengeville, Dieppe, Pourville, Etretat, sono le tappe più frequenti, poi si stabilisce a Giverny, da dove spesso punta verso il Sud, solo o con Renoir. Intanto la sua situazione economica comincia a dar segni di netto miglioramento. Un'atmosfera nuova, di gioia e di sollievo, si esprime nel quadro che il pittore esegue nell'autunno del 1881 dando l'addio a Vétheuil: Il giardino di Monet a Vètheuil. Il 1883 vede Claude Monet avventurarsi ancora una volta lontano dai luoghi abituali. In dicembre assieme a Renoir fa un breve viaggio sulla Riviera italiana, spingendosi fino a Genova e con l'anno nuovo parte da solo per Bordighera e Mentone, dove lavora in uno stato di euforia, incantato dal fulgido spettacolo della natura e dalla lieve foschia rosata che avvolge il paesaggio. Lascia Bordighera alla fine di aprile e un coro di lodi accoglie i paesaggi liguri esposti presso Durand-Ruel, facendo riconoscere la propria definitiva sconfitta alla critica che aveva osteggiato il "Maestro di Giverny". Nel 1890 Claude Monet inizia a lavorare alle sue opere più personali e incisive: i cicli dedicati ai Pagliai, ai Pioppi, alle Cattedrali di Rouen, e più tardi alle Ninfee. Già in passato Monet si era spesso concentrato su di un unico motivo o una serie di motivi: pensiamo alle tele del primo soggiorno londinese, ai paesaggi eseguiti ad Antibes, alla coerenza stilistica delle opere realizzate durante le successive visite a Londra (dal 1870 fino al 1904 non passò anno che il pittore non facesse ritorno nella capitale inglese), ma queste serie rappresentano per molti aspetti la naturale evoluzione e l'affinamento dei mezzi e dello stile fino ad allora impiegati. Cinque anni dopo è la volta della Norvegia, dove l'attira l'idea di dipingere neve immacolata, per due mesi si ferma a Oslo e tutte le mattine parte pieno di entusiasmo per dipingere per ore e ore a 25° sotto zero. I suoi spostamenti cominciano, però, a diventare meno frequenti: alcune puntate a Londra (1899, 1900, 1901, 1904), una corsa a Madrid a vedere Velasquez (1904), brevi visite a Venezia (1908, 1909). Il suo tempo ora, è principalmente occupato dalla sistemazione del giardino acquatico a Giverny, dalla cura delle piante e dei fiori che incessantemente dipinge. Non gli importa di essere considerato il maggiore artista francese vivente, non gli importa della gloria a tanta fatica raggiunta e pagata così a caro prezzo, a nulla gli valgono le lodi e gli onori che artisti, letterati e uomini politici gli tributano, egli sente sempre la disperazione di non riuscire, l'ansia di dovere andare oltre il risultato raggiunto, di avvicinarsi ogni giorno di più alla sua percezione delle cose nella rappresentazione delle apparenze. Con questo giovanile slancio, che nemmeno la dolorosa malattia agli occhi riesce a frenare, lavora alle sue ultime tele. L'artista fa realizzare un piccolo stagno nella sua tenuta di Giverny, ottenuto deviando un piccolo affluente del fiume Epte, il Ru, che attraversava la sua proprietà. Nello specchio d'acqua così ottenuto, Monet fa crescere delle ninfee e tutto intorno, pianta salici e altre piante esotiche. A completamento del progetto costruisce sopra lo stagno un ponticello di legno ispirato alle stampe orientali. L'artista è sempre stato affascinato dai fiori e dai riflessi dell'acqua ma in questo progetto è innegabile l'influenza di quella cultura giapponese diffusasi in Europa a partire dalla seconda metà del secolo e della quale Monet, come i suoi contemporanei, è stato un grande estimatore. Questo meraviglioso angolo di giardino sarà il soggetto delle ultime grandi opere di un Monet ormai stanco, afflitto col passare degli anni da problemi alla vista sempre più gravi. Nel 1914 muore il primogenito Jean. Monet è sempre più solo ma è stimolato al lavoro da amici come Georges Clemenceau e Octave Mirbeau, che si recano sovente a fargli visita. Decide di far realizzare un nuovo e grande atelier nella sua tenuta. Il nuovo studio è pronto nel 1916: uno spazio lungo venticinque metri, largo quindici e coperto per i due terzi da un lucernario in vetro. Qui Monet si mette al lavoro. Dipinge su tele di circa quattro metri per due e realizza un meraviglioso condensato delle impressioni di insieme del suo regno, rievocando gli effetti delle nebbie dell'aurora, dei tramonti, del crepuscolo o della notte. Nel 1918, in occasione dell'armistizio, decide di far dono della nuova serie allo Stato. L'amico Georges Clemenceau, allora primo ministro, tiene ad assegnare alle opere di Monet una collocazione prestigiosa, quella del padiglione dell'Orangerie alle Tuileries. In alcune di queste, non datate ma senz'altro appartenenti all'ultimo periodo, si scopre una produzione vicina ai risultati che verranno poi raggiunti da correnti d'arte d'avanguardia di inizio secolo, quali l'Espressionismo. Infatti, Monet porta alle estreme conseguenze il processo di smaterializzazione che già si era manifestato nella serie delle cattedrali. Nei primi mesi del 1926 gli viene diagnosticato un tumore al polmone, debole e malato è costretto a letto, e il 5 dicembre dello stesso anno muore poco prima che i pannelli della Grande decorazione vengano prelevati ed esposti al museo dell'Orangerie a Parigi dove continuano a dare allo spettatore la sensazione di essere immerso nel suo giardino a Giverny.


Per chi fosse interessato a quest'artista riportiamo di seguito i luoghi e le date dove poterlo vedere:

dal 19.8.2007
Die andere Sammlung. Hommage an Hildy und Ernst Beyeler Foundation Beyeler, Riehen

dal 9.6.2007
Manet to Matisse The Nelson-Atkins Museum of Art, Kansas City, MO

dal 1.6.2007
Französische Meisterwerke des 19. Jahrhunderts aus der Sammlung des Metropolitan Museum of Art New York zu Gast in Berli Neue Nationalgalerie, Berlino

fino al 1.6.2008
Liebe auf den ersten Blick Museum Würth, Künzelsau

fino al 1.7.2007
Giverny impressionniste - une colonie d’artistes, 1885-1915 Musée d’Art Américain Giverny, Giverny

fino al 3.6.2007
Marisse, Picasso and the School of Paris Frist Center for the Visual Arts, Nashville, TN

fino al 20.5.2007
Monet in Normandy The Cleveland Museum of Art, Cleveland, OH

fino al 13.5.2007
La forêt de Fontainebleau. Un atelier grandeur nature. De Corot à Picasso. Musée dOrsay, Parigi

fino al 6.5.2007
The Romance of Modernism: Paintings and Sculpture from the Scott M. Black Collec MFA - Museum of Fine Arts, Boston, Boston, MA

fino al 6.5.2007
The Masterpieces of French Painting from the Metropolitan Museum of Art MFAH - Museum of Fine Arts, Houston, TX

fino al 6.5.2007
Abenteuer Barbizon Von der Heydt Museum, Wuppertal

giovedì 3 maggio 2007

Umberto Boccioni, dal futurismo al "Dinamismo plastico"



Umberto Boccioni, pittore, scultore futurista e inventore del Dinamismo Plastico, nasce a Reggio Calabria il 19 ottobre 1882, ma trascorre infanzia ed adolescenza in varie città perchè il padre, impiegato statale, è costretto a frequenti spostamenti. La famiglia, originaria di Forlì, si trasferisce a Genova, poi a Padova nel 1888 ed in seguito a Catania nel 1897, dove Umberto consegue il Diploma in un Istituto Tecnico. Nel 1899 Umberto Boccioni si trasferisce a Roma presso una zia, frequenta la Scuola Libera del Nudo e lavora presso lo studio di un cartellonista. In questo periodo il giovane pittore, dallo stile molto realista, conosce l'altrettanto giovane Gino Severini e con lui frequenta lo studio di Giacomo Balla, che in quegli anni, a Roma, è maestro molto famoso, per approfondire la ricerca sulle tecniche divisioniste. Dal 1903 al 1906 Umberto Boccioni partecipa alle esposizioni annuali della Società Amatori e Cultori, ma nel 1905 in polemica con il conservatorismo delle giurie ufficiali, organizza con Severini, nel foyer del Teatro Costanzi, la "Mostra dei rifiutati". Per sfuggire l'atmosfera provinciale italiana, nella primavera del 1906 Boccioni si reca a Parigi, dove rimane affascinato dalla modernità della metropoli. Da Parigi, dopo alcuni mesi, fa un nuovo viaggio in Russia prima di tornare in Italia e stabilirsi a Padova per iscriversi all'Accademia di Belle Arti di Venezia, dove si laurea. Per conoscere a fondo le nuove correnti pittoriche, derivate dall'evoluzione dell' impressionismo e dal simbolismo, Boccioni intraprende un altro viaggio fermandosi a Monaco, incontrando il movimento "Sturm und drang" tedesco ed osservando l'influsso dei preraffaellita inglesi. L'Italia del primo Novecento ha una vita artistica ancora ancorata alle vecchie tradizioni, ma Milano è diventata una città dinamica, ed è qui che Boccioni si stabilisce al ritorno dal suo ultimo viaggio in Europa per sperimentare, sotto l'influenza del divisionismo e del simbolismo, varie tecniche. Dal gennaio 1907 all'agosto 1908, Umberto Boccioni tiene un dettagliato diario nel quale annota gli esperimenti stilistici, i dubbi e le ambizioni che scuotono l'artista che si barcamena fra il divisionismo, il simbolismo, verso il futurismo, dipingendo ritratti, quadri a carattere simbolico e qualche veduta di città. Finalmente Boccioni, dopo aver conosciuto Marinetti, si avvicina al movimento avanguardista e, nel 1910 scrive, con Carlo Carrà e Luigi Russolo, il "Manifesto dei pittori futuristi" ed il "Manifesto tecnico della pittura futurista", firmati anche da Severini e Balla. Boccioni modernizza la propria riconoscibile espressione pittorica utilizzando un linguaggio proprio. Intanto partecipa attivamente a tutte le iniziative futuriste diventando il pittore più rappresentativo di questa corrente. Allestisce, nelle varie capitali europee, Parigi, Londra, Berlino, Bruxelles, mostre dei pittori futuristi e scrive il "Manifesto della scultura futurista", dove espone le sue teorie sulla simultaneità e sul dinamismo, già parzialmente espressa nel "Manifesto tecnico della pittura futurista", suggerendo l'impiego di materiali diversi, come il legno, la carta, il vetro e il metallo, in una stessa opera, cominciando a un incorporare frammenti di oggetti nei modelli in gesso delle sculture. Dal 1912, anno della prima esposizione futurista a Parigi, presso la Galerie Bernheim-Jeune, Boccioni applica il concetto di "Dinamismo plastico" anche alla scultura, mentre continua lo studio del dinamismo del corpo umano, attraverso una lunga serie di disegni ed acquarelli. Dal 1913, collabora alla rivista "Lacerba", organizzata dal gruppo futurista fiorentino capeggiato da Ardengo Soffici, ma il Dinamismo Plastico incontra l'ostilità di alcuni ambienti culturali futuristi ed il disinteresse del pubblico. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale Umberto Boccioni, come molti intellettuali, è favorevole all'entrata in guerra dell'Italia, si arruola volontario nel Battaglione Lombardo Ciclisti e parte per il fronte con Marinetti, Russolo, Sant'Elia e Sironi. Il battaglione è disciolto nel dicembre 1915 e nel luglio dell'anno successivo Boccioni viene assegnato all'artiglieria da campo e destinato a Verona. Applicando il Dinamismo plastico ai suoi dipinti, Umberto Boccioni abbandona l'impostazione tradizionale fondendo interno ed esterno, i dati reali e quelli del ricordo, in una singola immagine. Con questo intento sviluppa le caratteristiche "linee-forza" che tracciano le traiettorie di un oggetto in movimento nello spazio. Negli anni di guerra Umberto Boccioni collabora con la rivista "Avvenimenti" e si riavvicina al suo vecchio maestro Balla. Il suo stile personalissimo, alla ricerca di dinamismo, lo porta ad accostarsi all'espressionismo ed al cubismo allo scopo di mettere lo spettatore al centro del quadro per farlo sentire coinvolto e partecipe. Umberto Boccioni diventa l'artista che meglio degli altri sa ritrarre la vita moderna, frettolosa e stressante, di cui la macchina in movimento è il simbolo principale. Il 17 agosto 1916 Boccioni muore dopo una caduta da cavallo a Sorte (Verona), nel pieno della sua rivoluzione pittorica che lo ha portato dal futurismo al Dinamismo Plastico.